Nel fare retromarcia con l’auto, il signor Gilmo tamponò
la signora Vinzia, che stramazzò al suolo, subito soccorsa da
Oscar, il suo stazzonato compagno a quattro zampe.
L’uomo, vedendo la donna per terra, col meticcio di labrador
che le impartiva l’estrema unzione con la lingua, si sentì
mancare, tanto che, quando sopraggiunse l’ambulanza,
l’ossigeno fu somministrato prima a lui che a lei.
“Non è colpa mia” protestò il signor Gilmo appena gli tolsero la
mascherina “Ho guardato quando ho fatto marcia indietro. Non
c’era nessuno” aggiunse singhiozzando, gli occhi su quel grosso
corpo di vecchia buttato sull’asfalto, più simile a un sacco di
patate che a una figura di donna.
La signora Vinzia viveva in strada di ciò che raccattava nella
spazzatura e metteva in un carrello da supermercato, il suo
monolocale su rotelle; aveva notato una monetina giù dal
marciapiede e si era chinata per raccoglierla proprio mentre
l’uomo stava uscendo dal parcheggio. L’auto l’aveva urtata nel
didietro, e lei era caduta in avanti a peso morto, per poi girare su
se stessa e ritrovarsi a guardare il cielo a braccia aperte, come
crocifissa.
“Dio mio” sospirò la crista ai soccorritori “Sono morta.”
“Stia tranquilla” dissero quelli dell’ambulanza “se ci fosse
qualcosa di rotto urlerebbe dal male. Ora la portiamo in
ospedale.”
I due cappotti sformati che la donna portava uno sull’altro per
proteggersi dal freddo, sopra ad altrettanti maglioni spessi un
pollice, dovevano aver attutito sia l’urto dell’auto che la caduta.
“Povera me” sospirò di nuovo “Chi penserà al mio Oscar?”
Il cane, a sentire la padrona fare il suo nome, disegnò
un’espressione sconsolata ed emise un uggiolio garbato, come a
non voler disturbare.
“Ci penserò io” fece il signor Gilmo che, anche se non aveva
colpa dell’incidente, se ne sentiva responsabile, per la sofferenza
che stava causando a una persona già così duramente provata
dalla vita.
Una donna di strada, senza dimora né più rispetto di se stessa,
con solo un cane per amico. Che ingiustizie doveva aver subito,
o quali dispiaceri aver sofferto per ridursi in quelle condizioni?
Senza contare Oscar, la cui aria afflitta e la complessione
scarnita richiamavano trascorsi assai poco felici.
Il signor Gilmo non si era mai sposato, forse perché non aveva
trovato la persona giusta, o forse per non rinunciare alle sue
abitudini di scapolo, ai suoi riti, non altrimenti da tanti
quattrozampe, per i quali i riti sono sacri.
Tuttavia accolse di buon grado Oscar nel suo attico,
apprestandogli un angolo del tinello con un panno dove dormire
e due ciotole, una per l’acqua e l’altra per il cibo, e dividendo
con lui quello che preparava per sé. In pratica aumentando la
quantità di ciò che cucinava, che Oscar, pur essendo un cane, era
e restava anzitutto un ospite, e non si davano da mangiare dei
croccantini a un ospite. E i bocconi del padrone di casa,
accompagnati a dosi crescenti di coccole, al cane parvero da
sogno, dopo i chiari di luna nera vissuti con la vecchia padrona,
tanto che si affezionò ben presto anche al nuovo.
Il signor Gilmo, dopo l’incidente andò in ospedale a trovare la
signora Vinzia, e gli sembrò che non fosse né così grossa né così
vecchia. Ripulita dai residui della strada, con pigiama e vestaglia
lavate di fresco, per quanto di fortuna e perciò non della sua
misura, pareva di una bellezza inattesa e trasparente, anche se
grezza, svilita. Forse erano addirittura coetanei a cui la vita
aveva tolto qualcosa; a lei la voglia di lottare e a lui la gioia di
vivere. Si trascinavano entrambi come due molluschi, solo
battenti bandiere diverse, mari lontani, seppur vicini.
“Mi dispiace” le disse il signor Gilmo.
La donna scosse la testa.
“Lei non c’entra. Sono io che non so più badare a me stessa. È
stata colpa mia.”
“Come si sente?”
Si guardò la punta dei piedi, il busto, le braccia.
“Mi stanno facendo tutti gli esami. Dicono che tornerò meglio di
prima. Oscar come sta?”
“Oscar sta benone.”
“Allora sto bene anch’io” disse, e gli sorrise. Un sorriso che fiorì
anche sulle labbra di lui.
Il signor Gilmo andava tutti i giorni a visitare la signora Vinzia,
e ogni volta la trovava più affascinante, più intelligente, più
simpatica, e di una nobiltà d’animo schiva ma limpida, lontana
da quella delle persone che conosceva. Gli appariva ogni giorno
più meritevole di riscatto, di una vita più degna.
La sera, a casa, spartiva con Oscar la cena e i progressi della
vecchia padrona, le confidenze, i piccoli segreti, e gli raccontava
del suo desiderio, che ormai era un bisogno, di starle accanto e
prendersene cura.
La signora Vinzia sembrava trovare quell’uomo gentile,
premuroso, ben educato e pure divertente, man mano che le si
apriva, la faceva parte di lui, gradevole di carattere e anche
d’aspetto e, poco alla volta, si era ritrovata ad aspettarlo come da
adolescente attendeva il suo primo ragazzo.
“Quando esce di qua può venire a casa mia” le disse una mattina
il signor Gilmo.
“Non so se sono pronta.”
“Ma cos’ha capito? A casa mia ho una stanza in più. Avrà tutta
la riservatezza che vuole.” La donna abbassò gli occhi. “Ci
pensi; domani me lo dirà.” Lei alzò il viso e annuì.
Il giorno dopo il signor Gilmo, appena entrato nella camera della
signora Vinzia, non la vide. Forse era in bagno. Ma il letto era
rifatto, pronto per essere rioccupato. Chiese a un’infermiera se
l’avevano cambiata di stanza o di piano.
“No” rispose “È morta.” L’uomo sentì cedere le gambe,
appoggiò una mano al muro e cacciò un espiro profondo per
impedirsi di piangere o di dare di stomaco. Ne uscì un rantolo
che lo apparentò a un moribondo. “Era molto grave. Non se
n’era accorto?”
“Io ci parlavo. Mi sembrava che stesse bene” rispose più a se
stesso che all’infermiera, lo sguardo vuoto contro la parete
bianca.
“Forse lei voleva che stesse bene.”
Il signor Gilmo uscì come un automa. Tornato a casa e fatta una
carezza al cane, aprì la finestra e volò da chi l’aveva lasciato,
chiedendo perdono al vento di ciò di cui non aveva colpa,
mentre l’ospite a quattro zampe ululava al cielo il suo dolore.
Oscar finì al canile, a raccontare ai compagni di pena la storia
d’amore dei suoi padroni. Una storia che continua in un mondo
diverso, dove non ci sono auto, carrelli della spesa e ingiustizie
ma solo anime.

– GABRIELE ASTOLFI

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